lunedì 25 maggio 2009

Documenti dal passato...


Questo manoscritto è stato rinvenuto il 24 maggio 2059 d.c. nel tramezzo di un bagno di Palazzo Grazioli in Roma. L’opera muraria, di fattura certamente posteriore alla realizzazione del palazzo e certificata “antisismica” da tal Guidone da Bortolaso che la progettò, pare sia servita a frazionare il bagno stesso in due bagni più piccoli, di cui uno ad uso esclusivo di persone minorenni (lo si evince dalla dimensione inferiore rispetto alla norma dei servizi igienici). Non è stato invece possibile attribuire la paternità dell’innalzamento del tramezzo poiché i lavori furono commissionati presumibilmente “A NERO” secondo l’usanza dell’epoca, ma certamente vi sono state impegnate maestranze provenienti dalla Numidia (nel tramezzo sono stati rinvenuti dei costumi da bagno ascellari con ricamate frasi del tipo “daje Giugurta!” ed una piantina con le principali rotte natatorie dal porto di Skikda alla foce del Tevere, che serviva a questi apprezzatissimi pendolari per raggiungere a nuoto ogni mattina il posto di lavoro). Diverso è il discorso per l’attribuzione della ode: non v’è, a tutt’oggi, una versione univoca. I migliori specialisti mondiali, tuttavia, a simposio per oltre 32 anni presso il “Centro Studi San Silvio” alla Maddalena, sono praticamente certi che sia stata vergata di suo pugno da Silvio medesimo, in un’epoca compresa tra il 2009 ed il 2012 d.c., e che per tale sapienza poetica venne anche detto L’Aulico.“L’Ode della Libertà”, questo è il titolo del componimento, reca con sé anche delle notazioni ad opera del massimo esegèta delle opere di Silvio, tale Maurizio Lupi, che svelano ampiamente la portata filosofica e l’alto livello morale che ispirarono il Nostro durante la redazione del testo.Oggi, finalmente, a 100 anni dal rinvenimento dell’ode, ed in concomitanza coi Fasti Imperiali, essa viene pubblicata integralmente col corredo della postilla critica.
L’ODE DELLA LIBERTA’!
1 Sandro, io vorrei che tu e Maurizio ed io
2 fossimo presi per magìa
3 e messi su una navicella, spaziale,
4 che ad ogni soffio di vento
5 andasse per lo cielo e per l’etere secondo l’altrue volontà.
6 Sicché Fini o Napolitano o altro cattivo magistrato
7 non ci potesser causare ostacoli,
8 anzi, vivendo accomunati dalla stessa volontà,
9 crescesse il desiderio dello stare insieme, verso l’infinito, e oltre!!
10 E il valente mago Scapagnini ponesse con noi
11 poi la signorina Mara e la signorina Emma,
12 che pur resiste alla lusinga,
13 insieme con quella ch’è tra le trenta donne più belle del parlamento
14 e qui, parlassimo sempre di gnòcca,
15 e ognuna di loro fosse contenta,
16 così come io credo che saremmo noi…
17 …. e certamente, invero, lo saremo!!
POSTILLA CRITICA
Verso 1
La magnanimità di Silvio è subito esibita in questo primo verso in cui, posizionandosi da ultimo del trio e chiamando affettuosamente per nome i suoi pupilli li fa assurgere allo stesso suo livello. Il Gasparri passerà il resto dei suoi giorni in adorazione perpetua del Berlusconi (con conseguente parèsi del labbro inferiore) ed in perenne difesa delle sue azioni, allora aspramente avversate da una minuscola parte dell’ingrato popolo italico. In quell’epoca d’altronde non fu compresa appieno la grandezza dell’operato di Silvio. Il Gasparri verrà in seguito beatificato, mentre del Bondi, passato alla caduta del regno di Silvio nelle fila avversarie, si persero le tracce. Pare che un successivo sonetto (Ode al nemico risanato) fu da Silvio dedicato al Bondi in una posteriore fase di riavvicinamento tra i due, quando Silvio entrò in odore di santità dopo aver colonizzato anche il soglio di Pietro. Tuttavia, i critici, non potendo attribuire con certezza la paternità di quel sonetto, avvalorano la tesi che Bondi venne amorevolmente racchiuso in un plinto di cemento armato del Ponte sullo Stretto. Purtroppo non si hanno le prove a suffragio di questa affascinante tesi: il Ponte crollò il giorno stesso dell’inaugurazione a causa del colpo ricevuto dalla bottiglia di champagna sul pilone del versante di Reggio Calabria. Le forti correnti dello stretto e la profondità del mare in quei punti hanno poi reso vano il tentativo di recupero dei blocchi cementizi che torme di schiavi, dal 2012 al 2079, avevano affastellato per la realizzazione di questa meraviglia. Resta peraltro vero, che la Trinacria da allora fu raggiungibile a piedi, seppure in cordata doppia.
Versi 2-5
La malcelata insofferenza di Silvio per il ruolo che dovette rivestire in quegli anni (non è dato sapere da chi, ma fu costretto suo malgrado a scendere nell’agòne politica del tempo per condurre il paese tutto al bene supremo), induce il nostro a lanciare questa sorta di preghiera, di invocazione ad’una misteriosa entità sovrannaturale che lo possa salvare dal suo tristo destino. L’indole (speculativa, riflessiva, filosofica e poetica) del Berlusconi riluce ampiamente in queste righe, ove, affidando addirittura il suo destino all “altrue volontà” dimostra che la sua massima aspirazione è quella di vivere una vita contemplativa, rifuggendo dalle incombenze materiali della vita e ponendo cieca fiducia nella sua base elettorale.
Versi 6-9 In questi versi si ribadisce da parte del Nostro l’ambizione massima ad una vita “semplice”, di meditazione accanto ai suoi amici e, nel contempo, Egli lancia una pesante, seppur breve, invettiva: dicono fonti bene informate (Arnulfo Capezzone lo sostiene nel suo trattatello “Sòna Chiavica”) che la brevità dell’invettiva fu voluta proprio per dimostrare che non c’era acrimonia da parte di Silvio nei confronti dei destinatari; fu più per un innato senso storiografico che Egli volle generosamente rappresentare la presenza marginale e blanda di una qual certa “opposizione” al Suo operato. L’invettiva viene scagliata dunque contro i tre elementi che, soli si badi, perturbarono la serenità di Silvio. Di Fini (duca d’Almirante e Fiuggi) si sa che fu dapprima un vassallo fedele, al quale, per riconoscenza, Silvio donò un’ala del suo più importante castello, quello di Roma, dove si svolgevano costantemente frenetici Baccanali. Ma Fini se ne ebbe a male e lamentandosi con tale Franceschino (che in realtà godeva dell’usufrutto di circa un terzo del Palazzo e di un piano intero dell’Oviesse di Ladispoli) in una missiva lamentava che: “…non di un’ala del real palagio trattasi, mio caro, bensì d’una misera Camera… la più rumorosa e piena di bifolchi ch’io ricordi da che nacqui…”. Fini, in seguito, internato ai bagni penali di Civitavecchia, scrisse le sue “Memorie Rosso Ruggine”: confessò di essere ateo e filo-marxista; di essere stato segretario della FGCI sotto le sembianze di D’Alema prima e di Veltroni poi; di essersi impossessato del corpo di Achille Occhetto all’epoca della Bolognina; di essere stato il doppiatore della voce di Nanni Moretti nei momenti più alti e drammatici del film “Palombella Rossa”; di essere stato, infine, il primo ballerino del Bolsciòi per diciassette anni durante i quali svolse attività anarco-insurrezionale nei principali teatri in cui si esibì. Del secondo, Napolitano, non si sa moltissimo: sebbene avesse avuto un passato da scavezzacollo (Martin Edgar Blosnikov Senior nel suo pamphlet “Era meglio morire da piccoli” addirittura rivela un suo flirt con una Jaqueline Onassis minorenne…) con l’incalzare dell’età finì per assumere posizioni moderate, tanto che lo stesso Silvio pare avesse tramato perché il Napolitano assurgesse ai massimi livelli istituzionali dell’epoca. Una volta giunto lì, però, il Napolitano manifestò, ma solo a tratti ed a causa della senilità, una serie di atteggiamenti reazionari tesi a rallentare l’ineluttabile successo di Silvio. Sospeso a divinis da Papa Camillo Benedetto I° (presumibilmente figlio legittimo di Silvio e di tale Antonia Passatotano, rivelatasi in seguito essere la trentaseiesima moglie nascosta, e dunque fido alleato di Silvio), il Napolitano venne ricondotto allo stato embrionale e nutrito e idratato a forza; indi costretto ad ascoltare 24 ore su 24 il commento critico alla Costituzione Italiana (sospesa anch’essa a tempo indeterminato) eseguito dal trio Ronchi-Scajola-Brunetta su musiche sacre di padre Gianni Baget Bozzo. Dopo quattro anni di questo regime tuttavia fu liberato e c’è chi giura di aver visto svolazzare la sua bionda criniera mentre cavalcava le onde californiane a bordo della sua inseparabile Lancia Flavia del ’56, blu, rigorosamente con bandierina italiana (fonte: Thomas Flipmann). Infine: i cattivi magistrati. In realtà è notorio (Marco Travaglio Censore asserisce nel suo saggio “BerlusCasta” che Silvio alludesse ad una minima parte di essi: non più di sei o settemila magistrati; ossia solo quelli che negli anni avevano seguito i processi in cui Egli, per il gusto della sfida, si intrufolava da innocente, autoaccusandosi delle peggiori nefandezze. Ovviamente questo verso dell’ode è uno sberleffo affettuoso alla categoria intera che non aveva capito lo spirito burlone di Silvio. La maggior parte di loro venne tuttavia ceduta in blocco a Mouhammar Gheddafi (durante il mercato di riparazione di Ottobre in una concitata seduta presso l’Hotel Hilton di Milano) che pretese, sotto la minaccia di imbarcarli tutti su una bagnarola e rispedirli al mittente, la realizzazione di una autostrada a sei corsìe in tartan anallergico di 1878 chilometri da Tripoli a Ma’Tan as Sarah, onde potersi dedicare alla prediletta corsa di dromedari insieme ai maggiorenti della tribù.
Versi 10-13 E’il verso più misterioso.
Sembra avvenire la rivelazione dell’identità del nume a cui Silvio rivolge la sua prece. Il nome non lascerebbe adito a dubbi: Scapagnini fu lo stregone di corte che per anni e anni (e lifting su lifting), mantenne in splendida forma il Nostro. Tuttavia, e ce lo indica il prosieguo dell’ode, da questo istante in poi la natura burlona di Silvio affiora impenitente e con irresistibile simpatìa. Lui, scevro da qualsivoglia forma morbosa nei confronti delle donne, allude infatti in maniera ironica alla possibile presenza sulla navicella di tre dame, a sottolineare, anzi con forza, la sua quasi misoginìa e la raggiunta pace dei sensi. Mara, lo sappiamo grazie alla traduzione eseguita dal rigoroso studioso di Mario Borghezio sullo Stelo di Uhraratt, (un macigno di granito di 18 tonnellate sul quale vennero incise in lingua Sardo-Innuhit ed in tardo-Croatians le registrazioni delle intercettazioni tra Silvio e Mara stessa e che il Borghezio riuscì a tradurre solo dopo aver convissuto forzatamente per 28 mesi con i 1370 Rom del campo nomadi Casilino ‘900), altri non è che l’amata Veronica Lario. Altrettanto chiara è la figura di Emma Marcegaglia di Montezemolo: è semplicemente l’economa del regno di Silvio, che poi abbandonò il suo ruolo e divenne primo pilota della Ferrari al Grand-Prix di Formula 1 di Roma, voluto dal buffo ma simpatico camerata Gianni Alemanno, e svoltosi la notte di Natale del 2019 sulla sopraelevata realizzata per l’occasione tra il Colosseo, gli Scavi di Ostia Antica e il Sacrario delle Fosse Ardeatine. Essendo per lui, oltretutto, poco più che una velina è facile smontare la tesi (sostenuta da Armando Cossutta per invidia e da Francesco Rutelli, imbufalito dal non avere lo stesso successo con le donne, nonostante la propria somiglianza con Big-Jim) che vorrebbe rappresentare Silvio come un essere affetto da vaginìte. Sulla terza donna, “ch’è tra le trenta donne più belle del parlamento” sono invece tuttora aperte le congetture: escluse la Paola Binetti e la Livia Turco (troppo mascoline, e dunque non funzionali al paradosso arguto di Silvio), esclusa la Rosy Bindi (fu lei stessa a chiedere a Silvio di non essere menzionata, per modestia) ecco rimanere in pista Giorgia Meloni e Mariastella Gelmini. Ma la Gelmini, all’epoca della stesura di questa ode, ricopriva il ruolo di Ministro della Distruzione dell’Istruzione e dunque non pare legittimo l’accostamento. A nostro modesto parere, dunque, la misteriosa terza donna può solo essere la Giorgia Meloni, peraltro amorevolmente appellata “la zoccola” proprio da un esuberante Silvio durante una carnevalata rimasta celebre. Ecco quindi, in virtù di queste premesse, che si apre una nuova luce anche sulla vera identità del nume tutelare. Non è infatti lecito pensare che tanto genio poetico rivelasse in maniera così esplicita il nome. Allora, Marcello Dell’Utri, è stato asserito da alcuni. Ma nonostante decenni di studi sui carteggi e sugli intrecci tra Silvio e il Dell’Utri non sono emerse ancora prove sufficienti né per dimostrare che i due si conoscessero veramente, né semplicemente per incastrare il Dell’Utri per le sue attività di stampo mafioso. Dunque, resta un solo uomo che può, a buon diritto, essere ritenuto il destinatario dell’invocazione di Silvio: è quel Mariano Apicella che da sempre accompagna le sorti del Nostro e che da successive ricostruzioni risulta essere il nient’altro che un clone dello stesso Silvio.
Versi 13-17 La chiosa finale.
Silvio rimane all’interno dello scherzoso paradosso ed anzi, lo rafforza (infatti si concede l’uso di un termine tratto dalla vulgata popolare in voga in quegli anni: gnòcca). Ma non sfugge a nessuno che invece alluda ad argomenti a lui più congeniali; la filosofia, la metafisica, la semantica, lo spirito, il senso dello stato: in definitiva riemerge con prepotenza tutta l’ansia e la sofferenza intima di chi è chiamato a dover realizzare in terra il sommo bene per gli altri… Resta un unico dubbio circa il significato della penultima frase: “così come io credo che saremmo noi”. Pare, in conclusione, una amara riflessione sul suo stato di essere “incompreso” e leopardianamente “infelice”; balena in Lui, per una frazione di secondo, il timore che il popolo non riesca a comprendere la serena e distaccata limpidezza dei suoi ragionamenti, e che dunque non maturerà mai quella “elevazione culturale e spirituale” del popolo che Lui da sempre persegue e auspica per i suoi concittadini … ma per fortuna fu solo un attimo, un dubbio fugace e la storia fino ai nostri giorni testimonia che il Nostro riuscì agevolmente nell’impresa che si era prefisso.
POST-POSTILLA
Alcuni acuti critici letterari, hanno posto la questione se all’epoca del componimento fosse ancora in vita tale Umberto Bossi, non menzionato nell’ode. Per dovere di cronaca dobbiamo rammentare che il Bossi fu dapprima un acerrimo rivale degli eserciti Berlusconiani, ai quali si oppose con una nutrita schiera di ronde padane. Poi, visto che la situazione sul terreno volgeva al peggio, decise di stringere un patto di non belligeranza con Lui, operando una divisione territoriale abbastanza rigida della penisola italica (si narra che sul Rubicone, per anni insistettero decine di migliaia di contadini armati di forconi e roncole, pronti a difendere le sacre pianure). Qualcuno addirittura (Geronimo Stilton, nel suo trattatello su “Breve Storia d’Italia da Frà Cappio da Velletri al Lodo Alfano) sostiene che il Bossi non venne menzionato per una sorta di invidia da parte del Nostro. Il Bossi, è vero, amava passeggiare nei suoi pascoli sostenendo ad alta voce, in presenza della donzelle, di averlo più duro di tutti e così suscitando gridolini di approvazione e bramosìa nelle astanti. Ma Silvio dimostrò di averlo biforcuto (in un certàme disputatosi alla foce del Po, tra i migliori boscaioli leghisti) come peraltro la lingua. Dunque non trova rilievo storico la presunta invidia del Nostro nei confronti del Bossi. Pare invece acclarato che il Bossi non fu menzionato perché all’epoca era impegnato nel trovare una commissione d’esame che promuovesse il figlio Renzo all’esame di maturità: le severe difficoltà che incontrò Bossi padre in tale arduo compito e le conseguenti ambasce convinsero Silvio a non punzecchiare l’alleato nella sua ode, onde evitargli ulteriori scompensi cardiocircolatorii.
POST-POST-POSTILLA o Nota di Redazione
In un comunicato stampa odierno, Silvio Berlusconi ha smentito se stesso accusando la stampa ed i sedici comunisti rimasti in Italia (racchiusi in una gabbia del Bioparco di Roma insieme a sessantadue babbuini) di manipolazione mediatica, specificando che quando lui parla di Gnòcca, allude veramente ed esclusivamente alla gnòcca…

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