venerdì 18 luglio 2008

I giorni di Genova - di Elettra Deiana

Fui bastonata dalla polizia in assetto di guerra a piazza Dante, mentre esibendo inutilmente la mia tessera di parlamentare cercavo di spiegare che la carica – improvvisa e violentissima - era fuori luogo: il gruppone dei black block, arrivato là all’improvviso, si era già dileguato altrove, rovesciando cassonetti, come chiunque poteva vedere, e lì c’erano soltanto pacifisti e femministe, con le mani pitturate di bianco alzate in segno di resa a una guerra che, loro, non avevano nessuna intenzione di fare. Avevamo passato la mattinata ad attaccare fiori, biancheria intima, fili colorati alla rete che delimitava la zona rossa. Era venerdì 20 luglio, due ore prima che a piazza Alimonda ammazzassero Carlo Giuliani.

Ricordo che una signora, un “medico”, mi disse di essere, anche lei coinvolta nella carica, mi rassicurò per tutto quel sangue che mi veniva giù per il collo e mi imbrattava la canotta, dopo le manganellate in testa. “Ci sono molti vasi capillari in testa, il sangue viene fuori facilmente, non si preoccupi”, mi disse. All’ospedale, dove arrivai tra i primi, mi fecero controlli accurati di ogni tipo, mi suturarono la ferita con cinque punti, mi diedero consigli per tenere sotto controllo sintomi strani che eventualmente avessi avvertito. Medici e infermieri erano stati precettati, mi disse una dottoressa.

Le immagini di quella Genova in stato di guerra fecero il giro del mondo. Dell’Italia fanno spesso il giro del mondo immagini di cui vergognarsi ma pochi di quelli che hanno responsabilità pubblica per il nostro Paese se ne vergognano abbastanza. Non so se in questi giorni si sia diffusa in misura adeguata, perlomeno nei Paesi che protestarono perché loro cittadini erano stati picchiati e trattati da delinquenti a Genova, la notizia della sentenza per i fatti di Bolzaneto. Il processo per la mattanza nella famigerata caserma, dove si concluse nel segno della più totale violazione dello stato di diritto il G8 di Genova, si è chiuso con una sentenza che sottrae le forze di polizia ai rigori della legge.

Quindici condannati, trenta assolti, peni miti che nessuno sconterà. Le accuse erano gravissime ma lo Stato, dopo aver promosso con avanzamenti di carriera e collocazioni prestigiose i massimi responsabili della prova di guerra civile sperimentata a Genova – in primis l’allora capo della polizia De Gennaro - si assolve. E’ successo spesso nella storia patria. Il rapporto tra Stato e cittadini, qui da noi, è inficiato da una inadeguatezza di fondo, da un deficit della cittadinanza che ha qualche origine borbonica, arcaica e inquietante, su cui ormai, temo, c’è poco da fare. E poi come non potrebbe succedere oggi che lo Stato non si assolva?

Nel clima fobico che l’involuzione delle regole democratiche ha prodotto in questi anni, dopo tutte le isterie securitarie che hanno favorito l’ascesa della destra al potere, e i flebili, inutili distinguo di un’opposizione di centrosinistra che all’epoca di Genova ebbe responsabilità non piccole nel modo in cui venne concepita la risposta dello Stato all’insorgenza dei movimenti no global? Si era appena installato, allora, il terzo governo Berlusconi ma la preparazione di Genova – quel set da stato di polizia sottratto alla sovranità della città e alle regole della democrazia – era stato pensato prima, da ministri del centro-sinistra e da un vertice della Polizia designato dal centro-sinistra. Il governo di destra ci mise poi del suo, ovviamente. Ma le cose erano guaste in partenza.

E’ in gioco oggi la credibilità delle istituzioni democratiche, la legittimità di questa Repubblica che ci affanniamo a difendere. Per tante cose è in gioco. Anche per la sentenza di Bolzaneto.


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